Viaggio a Chernobyl: quattro giorni trascorsi in “The Zone of Alienation”. Parte II: “Attorno alle centrali” 23/05/2011

Con questo articolo i racconti del primo tour a Chernobyl entrano nel vivo della questione.
Dopo la sistemazione all’ostello riservato ai visitatori si percepiva una sottile eccitazione nel piccolo gruppo che, salendo sul furgone noleggiato con autista, si stava dirigendo nel tanto sospirato celebre luogo.
Luoghi che ad alcuni potrebbero risultare del tutto indifferenti,  secondo canoni estetici standard nemmeno degni di nota.
L’area attorno alle centrali conserva un proprio valore simbolico, che riflette le contraddizioni dell’uomo, dell’età moderna, uno sviluppo tecnologico sulla linea di confine tra la vita e la morte, che prefigura una delle possibili sorti dell’umanità. E soprattutto l’esperienza, altrimenti fortunatamente del tutto rara e inusuale, del vivere in un ambiente contaminato da radiazioni, per quanto ciò rimanga oggi solamente nella sfera dei pericoli potenziali.

La prima sosta ci lasciò oltre a fianco del canale che corre nell’area delle centrali, con la vista sui reattori non terminati #5\6 e seminascoste le altrettanto incompiute torri di raffreddamento.

Questa zona oggi è sede di attività a servizio di reattori spenti, e di gestione del cuore della spinosa questione, il reattore esploso, la cui copertura versa in precarie condizioni.

A ridosso di uno sbarramento sul canale, su un ponte ferroviario, nuotano pesci di enormi dimensioni rispetto alla vasca che li contiene. Nell’immaginario popolare sono stati associati a mutazioni genetiche, si tratta  solamente di pesci siluro.

Se questo sia casuale o un fattore pubblicitario per dimostrare che la vita svolge il suo corso in un simile ambiente non è possibile comprenderlo. L’area è però mantenuta in perfetto ordine, tale da rendere la sede amministrativa delle ex centrali un moderno centro direzionale.

L’area a ridosso del reattore distrutto dall’esplosione è tuttora off limits. Sebbene sia permesso stazionare vige il divieto di fotografare ciò che non sia propriamente la copertura del reattore, una regola generale che vale per i siti strategici, in tal caso nucleari, ma altrove non c’era nulla di particolarmente strategico o interessante. Nel frattempo arrivò un autobus con turisti a bordo. Alla vista delle modalità con cui si conducono visite turistiche nell’area,  non intraprenderei un simile viaggio così povero di libertà d’azione, sebbene abbia un costo pari ad un quarto rispetto a quanto sostenuto per risiedere nella zona in visita ufficiale.
La presenza di turisti in tuta bianca e mascherina assume più i contorni di una scenografia da operetta catastrofica che di reale pericolo, non si spiegherebbe infatti la ragione della mancanza di ogni protezione da parte di polizia e tecnici che lavorano attorno al sito.

Il paesaggio circostante è molto ricco di vegetazione, spesso si scorgono qui e là ruderi metallici di incerta funzione o origine. E’ comunque raccomandabile non avventurarsi fuori dalle normali vie di comunicazione a causa del valore altamente instabile e imprevedibile della radioattività.

I punti focali attorno alle centrali degni di visita sono abbastanza noti. Uno di questi è la stazione ferroviaria, dove alcuni locomotori e vagoni sono parcheggiati, il cui destino probabile è una discarica di rottame. Per quanto il ferro radioattivo sia poco appetibile per gli standard occidentali, non si spiega come gran parte del ferro presente in questi chilometri di solitudine sia stato rimosso a seguito dell’abbandono ultraventennale dell’area.

Nei siti più significativi è comune trovare una guardia solitaria, il furto di metallo è una di queste ragioni, un aspetto che è stato però osservato anche durante il recente tour nell’Ucraina Occidentale. Probabilmente ciò soddisfa anche necessità occupazionali. La compagnia di un essere peloso forse allevia il peso di vivere in una simile condizione.

Successivamente è stata visitata un’area dove sono stati depositati veicoli impiegati nelle operazioni di decontaminazione, un sito di proporzioni limitate rispetto al più celebre e vietatissimo deposito di veicoli e velivoli militari. La contaminazione attesa non corrispondeva alle misurazioni effettuate. In un solo caso un cingolo metallico ha mostrato valori pari a circa 40 microSievert.

Un ambiente inadatto alla permanenza prolungata ma non sicuramente inavvicinabile per breve durata. Non trova apparente spiegazione invece la vista di due vagoni passeggeri ribaltati tra la vegetazione.

Un obiettivo desiderato della giornata era rappresentato da due enormi gru di carico sulle rive del bacino delle centrali,  ma sul lato opposto.
L’altezza pari probabilmente a una quarantina di metri le rende vertiginose anche osservandole dal basso, con la loro mole imponente e coperte di ruggine.


Non credo sia stato un gesto di incoscienza soddisfare la volontà di scalarne una fino alla vetta del braccio. Certamente un’operazione che non si compie nella routine quotidiana. Fu fatto perchè un accompagnatore conoscendole aveva assicurato sulla tenuta della loro immensa struttura.

Il braccio della gru si presentava inclinato, questo facilitò la salita ma rese altrettanto impossibile la permanenza alla sua sommità, dato che l’inclinazione rendeva la pedana impraticabile trovandosi altrettanto girata verso il basso.

Era possibile solo stare seduto sull’ultimo solido piolo metallico. Guardare verso il basso apriva il sipario verso un inghiottitoio, reso ancor più profondo dalla presenza del bacino su di un lato.

Da un lato l’orizzonte mostrava le centrali, volgendo lo sguardo oltre il bacino appariva il profilo della città morta di Pripyat. Elementi che rendevano il paesaggio desolato uno dei più suggestivi che mi sia capitato di osservare nel mio viaggiare per l’Europa in abbandono.
Gli standard della sicurezza in questo paese sono lontani da quanto siamo ormai abituati a considerare in Occidente. Da bambino nessuno si lamentava se passavo le giornate a giocare nei cantieri, aspetti della vita moderna che appaiono ai nostri occhi un lontano passato.

Si cambiò direzione, tornando alle torri di raffreddamento.
La nordica compagna di viaggio entusiasta di quelle ambientazioni un po’ fantascientifiche si dirigeva liberamente verso l’oggetto del desiderio. Questa libertà goduta in aree apparentemente vietate ad un comune transito mi lasciò abbastanza perplesso, ma in fondo è diritto di ogni essere umano essere artefice del proprio destino. In questa piccola porzione di territorio europeo vigono regole dotate di propria autonomia, permesse per l’accesso limitato e ristretto nel numero dei frequentatori.

Le due torri sono monumenti incompiuti dell’industrializzazione, del sogno sovietico riposto in una città che doveva essere un modello sociale, e probabilmente lo fu per gli standard di quegli anni, fino a che le aspirazioni al miglioramento non si infransero in quei fuochi che si levavano la notte del 26 Aprile dal reattore, guardati con curiosità dagli abitanti ignari della dose disumana di radiazioni che avrebbero subito.

Sono scenografie uniche e irripetibili per la particolarità delle condizioni. In esse si sperimenta l’assenza e l’abbandono, una condizione da molti rifiutata come negativa, in realtà io credo molto vicina alla condizione umana, in termini positivi, filosofici, non essendo persona per nulla afflitta da  situazioni depressive o visioni oscure. Il riverbero all’interno di quelle strutture in cemento armato crea una situazione surreale, amplificata dalla presenza di rottame e vegetazione che non possono che rimandare ad ambientazioni che riaffiorano dal passato delle più antiche rovine. Sono queste le  antiche civiltà del prossimo futuro.

Per certi versi ho invidiato l’approccio di uno degli americani al seguito. Fotografare con il grande formato, o comunuque con fotocamere a pellicola di medio formato che a volte  impiego, permette di assorbire il meglio da queste ambientazioni, per la concentrazione richiesta ed il tempo che sono la chiave per penetrare a fondo il senso che emerge dalla frequentazione di questi luoghi senza vita apparente.

A sottolineare l’ostilità del luogo alcune ossa di grandi dimensioni apparivano qui e là attorno alle torri, probabili resti di bovini che non hanno avuto una vita facile in questi improbabili pascoli.

Al ritorno da questa prima giornata le impressioni erano molte e richiedevano una sedimentazione che costruisce nel tempo un solido strato di ricordi pronti a riaffiorare a distanza.

Le giornate terminavano nel tardo pomeriggio, ci attendeva poi una cena che non era mai molto dissimile dalle abbondanti colazioni nella vicina mensa dedicata a chi risiede in visita.

C’è chi beve per dimenticare e chi, come capitò a me, per celebrare quelle visioni che spenti i riflettori dell’avventura riaffioravano fissandosi in modo indelebile. E’ l’estetica dell’abbandono, e tutto il bagaglio di significati e interpretazioni che  porta con sè, oltre a questioni ambientali, sociali e numerose altre.

Continua con: Assistenza ed educazione a  Pripyat