L’autunno a Chernobyl – #6: in elicottero sulla Zona di Esclusione

Durante  il ritorno a Chernobyl (si veda  l’episodio #5) ci giunse notizia del permesso per  il volo, sopra ad alcuni punti più significativi della Zona di Esclusione.
Giunti in prossimità dell’area di atterraggio già si udiva il rombo rotante delle pale in avvicinamento. Per la prima volta nella vita mi attendeva un volo in elicottero.

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Era un mezzo di trasporto piccolo ed esteticamente accattivante, rosso e nero, e di marca cecoslovacca. Mi lasciò un po’ dubitante valutando meglio le sue condizioni. Era evidentemente un parto tecnologico di epoca sovietica, come anche il sessantenne pilota. Credendo che sia preferibile morire in battaglia piuttosto che sul divano, pensai che sarebbe stata una fine persino gloriosa per Derelicta.net.

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Senza scaramanzia caricai nel vano posteriore l’attrezzatura, pulendo accuratamente i vetri, o meglio lastre di plexiglas, da entrambe le parti, sebbene non risultassero completamente limpide e trasparenti. La leggera pioggia, per quanto scarsa, minacciava la riuscita dell’operazione, dato che le gocce sul lato esterno avrebbero destinato allo scarto ogni ripresa video e fotografica.

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All’accensione del motore, giunta  con difficoltà e numerosi tentativi, il rotore sopra le nostre teste cominciò a generare vibrazioni e un ronzio che si trasformò in un fischio, i cui decibel superavano minacciosi alla soglia di allarme. Quell’insieme di frequenze produsse un rumore di fondo tale da rendere quasi impossibile la comunicazione all’interno dell’abitacolo. Un odore di carburante si aggiunse a rendere multisensoriale l’intera esperienza.
Vibrando e con qualche scossone laterale, barcollando come un ubriaco la scatola rosso nera si sollevò da terra, producendo quel vortice d’aria tutt’attorno che prima d’ora avevo visto solo seduto comodo davanti ad uno schermo cinematografico.

In pochi minuti si era in quota sufficiente per capire che la vista da lassù sarebbe stata impagabile, o avrebbe perlomeno adeguatamente ripagata la non indifferente somma necessaria per prenotare un elicottero decollato da Kiev, appositamente per cinque individui, ciascuno intento a seguire la propria meta.

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Lasciata in fretta la città di Chernobyl il volo proseguì lungo la direttrice che porta direttamente alla zona delle centrali, a 16 chilometri di distanza. Dopo pochi minuti appariva la grigia torre di raffreddamento, velata dalla foschia, resa ancor più scura dalle giornate umide. Ed in serie, a fianco, la centrale del blocco 5\6, poi la lunga costruzione della centrale atomica dei primi quattro blocchi.

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Per ragioni di sicurezza l’elicottero dovette rimanere a cinque chilometri dai reattori, troppi per riprese  fotografiche con il velo atmosferico presente, ma ciò rendeva ancor più suggestivo il profilo nebbioso di questa singolare regione del pianeta.

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Pripyat non era lontana, ed apparvero improvvisi i primi edifici del suo perimetro. Con le condizioni atmosferiche di questi giorni assumeva ancor più i toni tragici della sua condanna. Le centinaia di oscure finestre di quella terra silente guardano il visitatore, trasmettendo la sensazione di approcciare una entità multiforme, muta e cieca.
Chi avesse osservato più volte le fotografie della vita cittadina degli anni precedenti all’incidente nucleare potrebbe, con la forza dell’immaginazione, riportare in vita nella propria mente il passato, ed è facile persino provare un senso di nostalgia malgrado quegli episodi ci riguardino solo per  le loro conseguenze .

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Il mezzo traballante volteggiò alcune volte sulla pianta  urbana, tagliando la città senza  un ordine  stabilito. Rispetto alla già dignitosa e impressionante vista dal sedicesimo piano di uno degli alti edifici, la vista dell’intero abitato si perdeva ora anche più lontano, interrotta solo dalla densità dell’aria carica di umidità.

Durante uno di questi rapidi cambi di direzione, preso dalla frenesia di non perdere queste impressioni visive, sempre  più rarefatte data la velocità del mezzo, finì quasi per rotolarci dentro a questa scatola volante.
La durata stabilita del volo fu di un’ora. Era un mordere e fuggire ma si aveva la consapevolezza che ciò avesse il carattere dell’eccezionalità.

Da Pripyat l’elicottero si diresse ad Ovest, per girare attorno all’immensa antenna Duga-3, the Moskow Eye, scalata parzialmente lo scorso anno. Purtroppo ci si passò troppo vicini e bassi di quota per permettere da quelle finestre limitate di riprenderla nella sua ampiezza. Troppi i suoi 150 metri di altezza e 500 di lunghezza anche dall’elicottero, a meno di starle ad una discreta distanza.  La cima era quasi avvolta dalle nebbie autunnali, e la tonalità conferitale dalla luce del primo pomeriggio le dava una veste regale, che spetta solo alle grandi opere ingegneristiche.

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Visioni ed emozioni si susseguivano senza sosta. Solo successivamente nella fase di metabolizzazione del ricordo e dell’esperienza, si comprende che quell’elicottero stava disegnando un percorso anche dentro di noi.

Lasciata la stazione trasmittente, sempre più a Ovest apparve l’enorme discarica di materiale radioattivo visitata il giorno precedente. Dall’alto ci appariva l’intera ampiezza del sito di stoccaggio, con le  sue numerose discariche disposte parallelamente.

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Nel percorso antiorario stabilito ci vollero diversi minuti di volo per raggiungere il villaggio di Rossohka, reso noto per essere stato un gigantesco cimitero di mezzi militari e civili, impiegati durante gli interventi a seguito dell’incidente nucleare del 1986.
Rossohka è off limits da anni. Non c’è stata alcuna possibilità di avvicinamento, nemmeno considerando che nei  miei due viaggi a Chernobyl si è compiuto l’impensabile. Rossohka era oltre anche queste possibilità. Da ciò la necessità di vedere dal cielo quel che da terra è vietato.

Probabilmente già l’osservazione dall’alto lascia intendere le ragioni di un tale divieto: il cimitero di ruggine di Rossohka oggi è pressochè vuoto, o lo è paragonandolo a ciò che era negli anni precedenti. I mezzi contaminati infatti sono stati smontati, in larga parte sono scomparsi.

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Lasciato quest’ultimo target si prese la via di ritorno per Chernobyl, e dopo diversi minuti apparve il piccolo aeroporto. Prima dell’atterraggio ci fu dato di conoscere  la città anche dall’alto, individuando alcuni luoghi già visitati, altri invece rivelarono una Chernobyl sinora sconosciuta.

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Giunti al punto di atterraggio si ripeteva al contrario l’esperienza della partenza. Quel suono infernale, che fu attenuato con pezzi di carta nelle orecchie, andava affievolendosi.
Un po’ stordito mi avviai fuori da quel singolare salotto, dai divani in finta pelle con vista sull’Abisso, guardandomi attorno per non dimenticarci dentro qualche pezzo di equipaggiamento o di me stesso, dato lo scossone emozionale che andava lentamente scemando.

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Tra suoni ovattati ed uno stordimento generale pensavo che quanto a fotografia di luoghi in abbandono avevo raggiunto il vertice delle mie esperienze accumulate. Non c’era altro da dire, i quattro giorni terminavano qui. Restavano solo spostamenti continui tra hotel, mezzi di trasporto, voli aerei, treni. Tutto ciò mi appariva un po’ indifferente, catturato da questo vortice di pensieri e ricordi da metabolizzare.